10/06/11

CONFLICT KITCHEN, IL FAST FOOD DELLA PACE

Sono arrivati qui in settanta. Per imparare come si fa la pace attorno a un piatto di bolani pazi. Gli studenti della Pittsburgh Ellis School sono seduti a un banco da fast food, di fronte a uno schermo. E il guru di "Conflict kitchen", Dawn Weleski, proietta dati e notizie sull'Afghanistan e spiega la sua filosofia: se gli americani si mettono a tavola con il "nemico" non ci sarà più motivo per schierare le truppe. E poi fa degustare il piatto principe della cucina afghana: pane arabo con zucca, patate, spinaci e lenticchie immersi nello yogurt. Bolani pazi, appunto.
Succede negli Stati Uniti, a Pittsburgh, Pennsylvania. All'inizio un po' per caso, come tra amici al bar. Gli artisti John Peña, Jon Rubin e Dawn Weleski si accorgono che in città ci sono solo fast food. Eppure la composizione etnica di questa fetta d'America è molto più varia: sarebbe un peccato appiattirla tutta sull'hamburger. Scatta la creatività, si fanno avanti gli sponsor (le associazioni Sprout fund, Waffle shop e il Center for the arts in society) e nasce Conflict kitchen. Banconi coloratissimi, dove sventolano le bandiere dei Paesi del mondo che non hanno avuto o non hanno relazioni idilliache con gli Usa, e ogni quattro mesi un turn over di piatti per apprezzare i menu dei teatri di guerra.
"Sappiamo bene che il nostro non è un locale normale", dicono Jon Rubin e Dawn Weleski, due degli ideatori, "ma è proprio quello che volevamo, anche se alla fine il progetto è cresciuto oltre le nostre aspettative". I tre hanno una certa passione per le cucine 'occupate', se così si può dire, e una naturale curiosità. "A partire da quello che i media ci dicono, o meglio, non ci dicono, sui conflitti", sottolinea Rubin. Per definire il progetto, la connessione con un amico iraniano che vive a Teheran ha fatto il resto. Grazie a lui, è stato possibile organizzare l'inaugurazione e permettere le prime conferenze via skype sul tema "cucina e conflitti".
Conflict kitchen ha aperto i battenti nel maggio 2010: piatto del giorno, kubidehpersiano (kebab tagliato e grigliato, con cipolle e menta su pane barbari cosparso da olio di girasole), accompagnato da una riflessione sulla politica, la cultura e le relazioni sociali. Il tutto per appena 5 dollari. Questo, infatti, non è solo un laboratorio culinario. "Chi arriva qui, a pranzo o a cena", spiega Rubin, "sarà omaggiato con un foglio informativo piegato in quattro dove troverà tutte le notizie sul Paese di turno e le sue tradizioni". Non solo. Jon Rubin e i suoi amici, visto il successo, organizzano seminari, incontri, dibattiti. Anche tra città e città, via skype, per spiegare, a chi vive in America, che cosa succede dall'altra parte del mondo. "Per noi è importante fare incontrare le persone vere, nella loro quotidianità", prosegue Rubin. "È l'unico modo per combattere i pregiudizi".
Conflict kitchen ha contagiato la gente di Pittsburgh al punto che il gradimento dei cittadini è totale. "Da noi, ormai, passano persone di tutti i tipi. A pranzo, durante la settimana, vengono a trovarci molti lavoratori dei dintorni, americani soprattutto, per consumare un pasto veloce, un ethnic-fast-food. Ma sono tantissimi anche i migranti. Nel weekend ci trasformiamo in un pub in piena regola". Ma c'è chi ha messo piede nel locale convinto che tutti i persiani lapidano le donne e scansano gli omosessuali e, invece, si è dovuto ricredere? Jon si fa una risata e commenta: "Lo spero. Sta di fatto che ormai siamo diventati un modello di business culturale. Ci chiamano dalla Nuova Zelanda all'Inghilterra per capire la nostra filosofia. C'è da dire che a Pittsburgh la conversazione più entusiasmante tra persone che non si conoscono, soprattutto tra americani e stranieri, è che tempo che fa. Con questo progetto, che ha coinvolto cittadini iraniani e afghani che hanno portato qui anche le loro storie, le loro tradizioni popolari e la loro visione dei conflitti, tutti hanno l'opportunità di sorridersi, di chiedersi perché sono qui, di approfondire quali sono i motivi per cui si arriva in America". Certo, i cuochi dei conflitti non risolveranno le nefandezze di Guantanamo o di Abu Ghraib, né cancelleranno l'11 settembre. Ma il fast food della pace ha messo a tavola mondi improbabili. E si sa che davanti al cibo ci scappa l'armistizio.

Fonte: Terre di Mezzo

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