10/06/11

METROPOLIZ, LA "CITTA' METICCIA" ALLE PORTE DI ROMA

Un salumificio abbandonato a 15 chilometri da Castel Sant’Angelo è diventato una piccola città multietnica dal nome Metropoliz.
Siamo al 911 di via Prenestina, nel territorio del Municipio VII (Roma), e quello che si vede è un complesso di edifici che fino agli anni Ottanta era un salumificio della Fiorucci e che dopo vent’anni di abbandono è ora abitato. Il 27 marzo 2009, infatti, i Blocchi precari metropolitani (Bpm), un movimento per la lotta alla casa nato a Roma nel 2007, hanno occupato l’area per utilizzarla come complesso abitativo.
All’inizio c’erano solo italiani e qualche profugo, poi nel giro di sei mesi si sono aggiunti i rom che erano stati sgomberati dall’accampamento abusivo di Centocelle. È stato da allora che, un po’ alla volta, Metropoliz ha preso forma fino a meritarsi l’appellativo di “città meticcia”, in quanto oggi vi vivono più di un centinaio di persone tra italiani, sudanesi, eritrei, marocchini, sudamericani e rom.
Non si tratta di una baraccopoli, come si potrebbe pensare di primo acchito: tanto per cominciare, sotto gli scheletri dei magazzini abbandonati, gli occupanti hanno edificato case in mattoni e cartongesso; e inoltre sono gli abitanti stessi a caratterizzare l’insediamento come qualcosa di più di una bidonville.
A partire dall’ingresso, il primo nucleo che s’incontra è quello della comunità Rom. Qui vive Ionut, 27 anni e tre figli a carico. «Sono contento di quello che abbiamo costruito», racconta. «È bello non dover stare più in una baracca. Nel campo di Centocelle non c'era acqua, né luce, né gas.»
Dall’altra parte di Metropoliz, invece, c’è Francesco, nato e cresciuto a Roma. È iscritto in graduatoria per ottenere un alloggio popolare, ma prima di poterne varcare la soglia ha un gran numero di posizioni da scalare e aspetta in coda con 30mila persone. «Mi sono trovato d'improvviso senza lavoro, con moglie e due figli da mantenere», dice. Da quando risiede a Metropoliz non ha mai avuto problemi di convivenza: «Qui siamo una grande famiglia. Al di là della lingua che parliamo e dei piatti che mangiamo, in fondo siamo tutti uguali.»
Poi abbiamo Mohammad. Giunto dal Sudan, ha ottenuto lo status di rifugiato politico e per sei mesi ha vissuto in un centro d’accoglienza. Quando ha saputo di Metropoliz si è trasferito subito, e con l’aiuto di un ingegnere etiope, pagato 35 euro al giorno, ha tirato su la sua casa. I soldi li ha guadagnati all’Ikea, dove lavora, per quanto il suo stipendio non basti per affittare un appartamento.
L'associazione Popìca Onlus, che dal 2006 fa animazione sociale per i bambini di strada, ha aiutato molte di queste famiglie a trovare i soldi necessari per completare le costruzioni.
Dunque abbiamo visto che ciò che distingue Metropoliz da una baraccopoli, oltre ai suoi edifici, sono anche i suoi abitanti. Ma di riflesso c’è anche l’organizzazione: per avere diritto a vivere nell’insediamento, infatti, occorre rispettare un regolamento comune. Si trova appeso a un muro, poco distante dai bagni. Tutti devono osservarlo, e in esso oltre a pretendere pulizia e ordine si chiede agli abitanti di non abusare di alcol e di rispettare donne e bambini. Chi viola le regole viene allontanato.
«Modelli come Metropoliz permettono di non consumare altro suolo e di autogestire un’area altrimenti dismessa», spiega Roberto Mastrantonio, presidente del Municipio VII. «L’amministrazione comunale dovrebbe avere più coraggio e trasformare le occupazioni in zone di auto recupero legali.»
Difatti al momento Metropoliz non è un’iniziativa legale, ed esiste il rischio di sgombero finché non sarà legittimata. Tuttavia le dichiarazioni del presidente di Municipio VII lasciano ben sperare, e personalmente ci sentiamo di aggiungere in coda alla notizia i nostri auguri per il successo dell’iniziativa.

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